Quando giocava in cortile cantava. Odette aveva la voce di un angelo, ma non voleva mettersi in mostra: era solo se stessa, con il suo cuore di bambina buona che brillava attraverso gli occhi. Ma noi interpretiamo le azioni altrui sulla base di come siamo. Così Alice era invidiosa degli sguardi che Odette attirava su di sé e un giorno la colse alle spalle e la spinse. Odette, colta di sorpresa, cadde con il viso contro il cancello d’ingresso. Rimase sfigurata, con una cicatrice su metà volto, e perse la voglia di cantare.
Passavano gli anni e Odette restava una ragazzina silenziosa, mite e dolcissima. Ogni tanto si guardava allo specchio e ricordava quel giorno con amarezza. Lasciava che i capelli le scivolassero davanti al viso, anche se non avrebbero mai potuto coprire una cicatrice così grande.
Il giorno del suo sedicesimo compleanno sua madre le regalò un CD intitolato ‘Callas - la divina’. “Era una cantante meravigliosa” le spiegò, sorridendole. Odette non capì subito, ma quando ascoltò il disco realizzò: quella sarebbe stata la sua vita.
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mercoledì 20 maggio 2020
domenica 5 aprile 2020
La Contrariata
La Principessa Caterina non ascoltava mai quello che i suoi genitori le dicevano. E dire che erano due Reali: tutti sottostavano a loro, tranne lei. Figuriamoci quando a darle ordini erano la balia o la sua cameriera personale.
"Caterina, lavati i denti!"
"Caterina, impugna il coltello come si deve!"
"Caterina, va' a lezione di piano!"
Ogni volta lei assumeva una posa contrariata, i pugni appoggiati ai fianchi e le sopracciglia aggrottate; rispondeva: "Io sono un'Altezza Reale, decido io cosa fare!" e faceva il contrario di quello che le era stato detto. Sarebbe stata buffa se non avesse destato tanta rabbia.
I consiglieri di corte rincuorarono il Re Paolo e la Regina Elena dicendo loro: "Non preoccupatevi, con l'età diventerà ubbidiente e capirà il suo essenziale ruolo nel Regno."
Infatti era l'unica figlia dei due, e dunque l'erede al trono: un giorno avrebbe dovuto regnare con saggezza ed equilibrio, dovendo spesso fare scelte non di suo gusto per il bene del popolo.
Trascorsero gli anni: la Principessa toccò i dieci anni, poi i quindici, poi i venti; nulla cambiò. Ormai tutti la detestavano e nessuno aveva rispetto per lei. La servitù di corte l'aveva soprannominata "la Contrariata".
La Regina, disperata, non dormiva più la notte, ma non diceva nulla al marito per non dargli ulteriori preoccupazioni. D'altronde sembrava proprio che non ci fosse nulla da fare: anche i migliori psicologi avevano fallito. La ragazza era troppo testarda per vivere in quel mondo. Anzi, era troppo testarda per vivere in qualsiasi mondo, dato che dappertutto vi sono regole che non ci piacciono e a cui non vorremmo sottostare.
Una sera il Re la vide particolarmente stanca, avvolta fra le coperte, e le si avvicinò, accarezzandole una spalla. "Mia cara, so che sei preoccupata per nostra figlia. Le abbiamo provate quasi tutte, ormai."
La Regina si voltò e chiese, sorpresa: "In che senso quasi tutte?"
Il Re parve pentirsi di ciò che aveva detto, ma ormai il danno era fatto. "Ci sarebbe un'altra via... Però è davvero una soluzione disperata" precisò, con la paura negli occhi.
Quelli della Regina si accesero di speranza. "Di che si tratta?"
Il marito esitò. "La strega del villaggio."
La donna si portò una mano alla bocca, spaventata.
Ma senza neanche proferire altre parole i due decisero che era ormai l'unica strada e che avrebbero dovuto percorrerla.
Il giorno successivo il Re convocò Franco, un aspirante consigliere che era cresciuto nel Castello dimostrando sempre dedizione e lealtà. Era forse l'unico che non avesse mai deriso la Principessa. Il monarca gli affidò l'incarico di dire alla strega di guarire la Principessa qualunque fosse il prezzo e si raccomandò di mantenere il segreto.
Anche Franco temeva la megera, ma la sua fedeltà alla famiglia reale superava i suoi timori. Così con il suo amato asino raggiunse il villaggio di Avengard, che distava due giorni dal Castello.
Una volta giunto lì chiese agli abitanti dove abitasse la strega. Inizialmente sembrarono non capire - forse parlavano un dialetto diverso. Finalmente, però, Franco ottenne la sua risposta e raggiunse la casa agognata. Era tutta dipinta di bianco, con le finestrelle di legno intagliato e vasetti di fiori dappertutto.
Aveva un aspetto molto diverso da quello che Franco si sarebbe aspettato. "Forse l'ho giudicata male" pensò, bussando alla porta. Una voce melodiosa gli rispose da dentro: "Entra, entra. Mi domandavo quando vi sareste decisi a chiamarmi!"
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia ed entrò. Anche al suo interno la casetta era molto accogliente, con divanetti e cuscini e libri.
"Eccomi" annunciò la strega, entrando nella stanza. Con il suo bel viso a fragola e i capelli neri acconciati sconvolse il giovane, che, stupito, rimase muto.
Allora parlò la strega: "Buongiorno. Accomodiamoci."
I due si sedettero, uno di fronte all'altra, e lei continuò: "Io sono Rossella, maga di Avengard. Tu devi essere Franco, direttamente dalla corte, giusto?"
Franco annuì. "Il Re mi manda a dire che è disposto a qualsiasi cosa pur di salvare sua figlia."
La ragazza assunse un'espressione grave. "Ho analizzato a lungo il caso e temo che ci sia una sola cosa da fare."
Franco, ansioso, domandò: "Quale?"
"Lasciare che paghi per i suoi errori."
Il ragazzo era esterrefatto. "Cosa??"
"Le buone maniere non hanno funzionato. La prepotenza non ha funzionato. Il tempo non ha funzionato. I cambiamenti ormonali non hanno funzionato. L'unica possibile soluzione che resta per sconfiggere la testardaggine della ragazza è che lei capisca che ci sono delle brutte conseguenze al suo comportamento."
Franco la fissava, incapace di parlare. Lei proseguì: "Ovviamente non possiamo lasciare che distrugga il regno con le sue azioni arbitrarie, con leggi o sentenze assurde. Né che ci metta in cattiva luce con altri regnanti. Ho pensato che potremmo minacciarla di farle un incantesimo se continuasse con il suo comportamento."
"C-c-che genere di incantesimo?"
Solo in quel momento Franco parve ricordarsi che si trovava di fronte a una strega e non a un'avvenente, intelligente e decisa ragazza normale.
"La trasformerò in una vera ragazza contrariata" rispose enigmaticamente la donna.
Il ragazzo sembrava confuso.
"Non preoccuparti. Verrò con te a corte per spiegare la situazione, se le Loro Maestà me lo consentiranno."
Diversi giorni e viaggi dopo le venne accordato di raggiungere il Castello, dove ebbe l'onore di incontrare i due Reali da soli.
"Ecco quello che credo dovremmo fare" concluse la maga.
I due regnanti si guardarono, capendo che la donna aveva ragione e il suo piano era eccellente. Convocarono allora la figlia, la quale come al solito vestiva a casaccio e aveva provato una orribile pettinatura di sua invenzione.
"Caterina, questa è Rossella, una nostra popolana. Ha bisogno del tuo aiuto" disse la Regina Elena. La frase spinse la Principessa a desiderare di essere utile, così che andò dalla strega senza riserve.
"Buongiorno. Che cosa ti serve, donna?" le domandò, ovviamente con bon-ton carente ma comunque con gentilezza.
"Sua Altezza, mia figlia è molto disubbidiente. L'altro giorno è stata quasi travolta da un cavallo perché non voleva accorrere ai miei richiami. Se continuasse a disubbidirmi potrebbe rischiare la vita; non solo: chi manderà avanti il mio negozio? Con la sua mancanza di regole andremo in rovina! E cosa farà quando non ci sarò più? Non voglio questo destino per la mia bambina!"
Rossella aveva un'aria davvero disperata nel dire queste parole. Colpì molto i due monarchi, che si identificavano, mentre la loro figlia non sembrò toccata dal discorso.
Rossella proseguì: "Capite bene che sarebbero le conseguenze delle sue azioni, ma non voglio che le subisca. Così ho pensato che se la Principessa in persona le dicesse di ascoltarmi forse lo farebbe. Potreste essere così gentile?"
La Principessa corrugò la fronte: "Le conseguenze delle sue azioni?"
La maga replicò: "Certamente. Il suo comportamento non la porterà lontano. Devo impedirglielo."
"Perché vuole impedirle di esprimere se stessa?"
Niente, la Principessa proprio non ci arrivava. E proprio in quel momento assunse la posa che le aveva fatto meritare il suo soprannome, la Contrariata. Disse: "Capisco molto bene tua figlia. Lasciala vivere come preferisce."
Rossella fissò la giovane e le rispose: "D'accordo, Vostra Altezza. Pagherà le conseguenze delle sue azioni. Come tutti." In quel momento uno strano fumo argentato sembrò riempire la stanza, ma un secondo dopo non c'era più.
La maga s'inchinò e uscì.
La Principessa si voltò verso i propri genitori e commentò: "Non potreste accettare anche voi che vostra figlia ha il potere di decidere cosa è meglio per sé?"
Il Re, addolorato e adirato insieme, replicò: "Non possiamo scegliere ciò che è meglio per noi!"
La Principessa non rispose nemmeno e uscì dalla stanza.
Circa un mese dopo, il Re si ammalò. Per guarire, disse il dottore, doveva riposare molto. La figlia non trascorreva molto tempo accanto al letto del padre, presa dalle mille attività che le piacevano.
Un giorno il Re la mandò a chiamare proprio poco prima che iniziasse la sua sessione di equitazione.
La ragazza, contrariata, corse dal padre per un saluto veloce. Lui, però, le chiese di restargli accanto e fargli compagnia.
"Non posso, devo andare a cavallo" replicò la ragazza, i pugni sui fianchi. Balzò in piedi, dirigendosi verso la porta.
"Il cavallo può aspettare" le rispose l'uomo, pallido.
"No!" s'impuntò la ragazza.
In quel momento un fumo grigio-argentato riempì la stanza, avvolgendo la ragazza. La Principessa sentì un dolore fortissimo in tutto il corpo, tanto che urlò a squarciagola.
La servitù accorse, spalancando la porta della stanza. La figura della ragazza urlante era ancora avvolta dal fumo. Quando questo scomparve, la giovane aveva un aspetto decisamente, veramente contrariato. Il suo viso si affacciava sulla schiena. Insomma, la sua testa era al contrario.
Camerieri e domestiche risero. Quando la ragazza si rifletté nello specchio del padre svenne.
La Principessa non capì mai che Rossella era una strega, così non scaricò la colpa su di lei: si prese finalmente la responsabilità delle proprie azioni. Capì che la sua testardaggine non l'avrebbe portata da nessuna parte, o meglio, che l'avrebbe condotta su una brutta strada, e che anche chi l'amava ne avrebbe subito le conseguenze. Di giorno in giorno migliorò i propri comportamenti, imparando anche che rispettare le regole non equivale a rinunciare a se stessi.
Vedendo la natura buona della ragazza, la servitù cambiò la sua opinione nei suoi confronti: tutti concordarono che quello che aveva subìto era davvero orribile e divennero molto più gentili con lei, sia in privato sia in palese.
Il padre guarì, così che poté insegnarle, insieme alla moglie, i doveri di un regnante.
Un giorno la Principessa mandò anche a chiamare Rossella per parlare con sua figlia e insegnarle ciò che aveva imparato. La maga convocò una bambina molto irriverente del villaggio, per la quale gli insegnamenti della Principessa furono preziosi anche se non li ascoltò molto.
All'alba del suo ventunesimo compleanno la Principessa si svegliò letteralmente con la testa a posto. Un regalo della maga che venne molto apprezzato dalla ragazza, ora un po' ribelle ma anche saggia, equilibrata e amata da tutti.
Trovate la storia anche su Wattpad, nella raccolta dedicata alla serie Oggi mi sento: https://my.w.tt/StZdMnCZq5
martedì 7 maggio 2019
La fata della notte
La speranza è una luce che ci mantiene in vita nei momenti più bui, perché illumina la nostra strada di fiducia. Per questo spesso non c'importa che vengano davvero realizzati i nostri desideri, ma soltanto l'esplimerli...
Pochi di noi sanno, infatti, che esiste una fata che abita fra nuvole, che, illuminate sempre dalla Luna, assumono solo sfumature di viola. Lei ascolta ogni nostro più piccolo capriccio. Ma purtroppo il suo potere è limitato, e si scarica con ogni suo incantesimo: per questo deve scegliere con attenzione quale esaudire. Ascolta, seleziona, cataloga: raccoglie i desideri in grandi scatole, e non ne butta via mai nessuno, anche se ignora quelli inutili e disprezza quelli ignobili. Poi quando il suo potere è ripristinato, e ha un po' di tempo, scartabella fra i più dolci, i più generosi, e ne realizza uno, uno soltanto di miliardi, e sembra si dimentichi di tutte le altre persone che hanno avuto il coraggio di desiderare... Questo la rende triste, e per questo a volte il cielo piange. Ma non può fare altrimenti, a causa del suo potere, che si ricarica sempre più lentamente perché dipende dall'amore degli esseri umani, che pur diventando sempre di più perdono la loro speranza, e così la loro felicità.
[Scritta nel 2011; me n'ero completamente dimenticata! La trovate anche su Wattpad: https://my.w.tt/nfbQk2SevW]
Immagine creata da me con due figure CC0.
venerdì 28 settembre 2018
La lotta con Carritalia
Sorgeva l’alba di un nuovo giorno su Varaggio. Dalle finestre, la fredda luce penetrava nella locanda, svegliando i due giovini che dovevano partire all’avventura. Erano esausti, soprattutto lei, che presentava dal giorno precedente i sintomi di una brutta influenza.
Approntati i propri bagagli, avendo mangiato un pochino di pane e bevuto un infuso medicinale, si diressero a piedi verso la stazione dei carri. Purtroppo, una brutta sopresa li attendeva: il loro carro era in ritardo di dieci minuti. Questo avrebbe comportato la perdita della coincidenza con le cavalcature che da Pisaus li avrebbe condotti alla loro vera destinazione. Ma i nostri eroi non si persero d’animo, ed attesero la cavalcatura successiva dopo aver acquistato un capo d’abbigliamento più pesante, più consono per affrontare l’improvviso gelido vento. Si accomodarono poi in una piccola oasi della cittadina, dove poterono perlomeno affondare i denti in un pasto più soddisfacente.
Furono i primi a salire sulla cavalcatura, ma di stazione in stazione le persone aumentarono. Il sole saliva alto. Il cavaliere maschio s’addormentò mentre la femmina, nonostante la malattia, seguiva con gli occhi il percorso sulla mappa e sul paesaggio molto suggestivo. Si teneva pronta per la battaglia.
Una volta giunti a destinazione seguirono il sentiero, apparentemente infinito, fino ad una vista straordinaria: un enorme palazzo circondato da alberi nel mezzo del nulla.
Ma non era la loro destinazione.
Lì accanto, un altro palazzo, nascosto, li attendeva. E anche la loro missione.
Molto s’impegnarono nel realizzarla, affrontando nemici su nemici; ma quel che ancora non sapevano è che la loro vera sfida si sarebbe presentata dopo di essa. La più grande sfida della loro vita: la lotta con Carritalia.
Il loro programma prevedeva infatti che avrebbero preso un carro da Pisaus fino a Spezialus Centris, dove un altro li avrebbe condotti fino a Genua Brignus e infine da qui sarebbero partiti, con un terzo carro, alla volta di Taurinus, la loro destinazione finale. Ma il destino - o meglio, Carritalia - aveva un piano diverso per loro.
Tornati alla stazione di Pisaus, infatti, i nostri eroi scoprirono che il loro carro era stato cancellato, per cui dovettero attendere mezz’ora più del previsto. Solo quaranta minuti li separavano dal successivo, ma anche questo sarebbe stato in ritardo, facendo perdere loro la coincidenza.
Arrivarono a Spezialus correndo per poter prendere il primo carro disponibile per Genua Brignus. Vi salirono, ma i minuti passavano senza che partisse: sarebbe arrivato anche questo troppo in ritardo perché potessero prendere la coincidenza. E di treni che giungessero a destinazione non ce n’erano più.
Stringendo i denti, i due decisero di provare a cambiare direzione: il carro per Milaneus Centris sarebbe stato più comodo per poter raggiungere Taurinus o Chivas, o quantomeno più semplice da raggiungere a cavallo da chi sarebbe venuto a prenderli. Ma trattandosi di un carro di diverso tipo il prezzo sarebbe stato certamente differente, così chiesero ad una controllatrice. Questa li informò che presso la biglietteria avrebbero cambiato loro il biglietto, ovviamente se avessero pagato la differenza. Siccome all’arrivo del mezzo per Milaneus mancavano circa dieci minuti, il cavaliere maschio corse alla biglietteria, dove però c’era una fila così. Chiese dunque al punto informazioni, dove gli spiegarono che invece nessuno avrebbe potuto cambiargli alcunché. Tirando giù tutti i santi dal Paradiso, il cavaliere tornò dalla sua compagna, circondata da bagagli, informandola. Nel sentirli, un pendolare del suddetto carro consigliò loro di prenderla con filosofia, perché tanto nulla avrebbero potuto ottenere dallo splendido sistema di trasporto italiano. E un suo amico li informò del fatto che un carro per Taurinus sarebbe partito da Genua Princes alle ore 22:30, fermata del Milaneus Centris. Quindi si misero l’animo in pace e, nel salire su quest’ultimo, comunicarono la vicenda al primo controllore che trovarono... il quale concesse loro di restare sul treno al modico prezzo di 13,50 dazi a capoccia.
“Ma almeno questo non ritarderà, vero?” domandò, irritato, il prode cavaliere.
“Certo che no” rispose, fiero, il ricco controllore.
Alla successiva fermata la voce del carro annunciò: “Siamo in arrivo alla stazione di XYZ con un ritardo di dodici minuti”. Irripetibili furono i commenti del giovane viaggiatore.
I due eroi si domandarono a lungo cosa possedesse di speciale questo carro per costare tanto di più, comunque si avvicinavano senza intoppi a Genua Princes e quindi si rilassarono.
Naturalmente, all’orario in cui sarebbero dovuti scendere si trovavano ancora nella stazione precedente. Poco male: avevano ancora quindici minuti prima che l’ultimo carro del loro viaggio partisse. Peccato che la porta del Milaneus, proprio in quel momento, decise d’incantarsi...
Arrivarono al pelo, e corsero fino al tabellone come due forsennati. Per scoprire che in realtà l’ultimo carro si sarebbe dovuto trovare sullo stesso tragitto di quello da cui erano appena scesi. Insomma, era in ritardo pure quello.
Giunsero a destinazione a dir poco esausti.
Tratto da una storia (purtroppo) vera.
lunedì 19 marzo 2018
I tragici risvolti dell'avarizia
Helrik, per risparmiare, non mangiava quasi niente tutto l'anno: qualche pezzo di pane raffermo, fagioli, un po' di carote... tranne qualche volta, quando decideva di compensare con il migliore affare del mondo: l'all-you-can-eat. Cibo abbastanza sano, delizioso, per tutti i gusti: l'unico caso in cui mangiare moltissimo può divenire addirittura un guadagno.
Così pranzava quel giovedì. Si riempiva si bocconcini prelibati e sorseggiava l'acqua inclusa nel prezzo (naturale, perché in quella con le bollicine c'è meno acqua), ignorando tutto ciò che lo circondava che potesse infastidirlo. Persino coloro che nutrivano i piccioni (anche se in genere li insultava a causa dello spreco che perpetravano). Ma improvvisamente un evento accadde a turbare la sua giornata: distratto dal tintinnio di una moneta, si voltò di scatto per poterla vedere subito e quindi metterci le mani, e così fece cadere sul pavimento un nigiri. Un fatto oltremodo tragico, perché lasciarlo lì forse avrebbe comportato un sovrapprezzo - la triste condanna di coloro che non riescono ad ingozzarsi abbastanza. E lui non poteva accettarlo. Non riusciva neanche a pensare alla moneta sul suolo tanto che era sconvolto. Come avrebbe potuto evitare di pagare quei sei euro? Non venendogli in mente alternative, in un attimo prese il nigiri da terra e lo mangiò.
Fu così che l'avarizia - in forma di *malattia oro-fecale a caso* - decretò la sua morte.
Fine.
Così pranzava quel giovedì. Si riempiva si bocconcini prelibati e sorseggiava l'acqua inclusa nel prezzo (naturale, perché in quella con le bollicine c'è meno acqua), ignorando tutto ciò che lo circondava che potesse infastidirlo. Persino coloro che nutrivano i piccioni (anche se in genere li insultava a causa dello spreco che perpetravano). Ma improvvisamente un evento accadde a turbare la sua giornata: distratto dal tintinnio di una moneta, si voltò di scatto per poterla vedere subito e quindi metterci le mani, e così fece cadere sul pavimento un nigiri. Un fatto oltremodo tragico, perché lasciarlo lì forse avrebbe comportato un sovrapprezzo - la triste condanna di coloro che non riescono ad ingozzarsi abbastanza. E lui non poteva accettarlo. Non riusciva neanche a pensare alla moneta sul suolo tanto che era sconvolto. Come avrebbe potuto evitare di pagare quei sei euro? Non venendogli in mente alternative, in un attimo prese il nigiri da terra e lo mangiò.
Fu così che l'avarizia - in forma di *malattia oro-fecale a caso* - decretò la sua morte.
Fine.
Racconto liberamente ispirato ad una agghiacciante storia vera.
Anche su Wattpad: https://www.wattpad.com/549518649-soffi-di-favole-i-tragici-risvolti-dell%27avarizia
domenica 19 novembre 2017
Albus
Albus era nato alle falde del vulcano. Dal primo giorno aveva respirato, poi, aiutato da degli amici, aveva iniziato a procurarsi il cibo, e a crescere. Lui non lo sapeva, ma lentamente, oltre che da quegli amici che così strettamente a lui si erano legati, veniva cresciuto dalla cura della pioggia, dal calore del sole, dalle carezze del vento. Senza rendersene conto li ascoltava, e li seguiva; d'altronde non poteva prendere nessun'altra strada, perché lì stavano le sue radici, lì la sua terra, lì la sua vita. Non sapeva, poi, da dove provenisse, o dove fosse diretto. Non sapeva di essere così fragile da poter essere spazzato via da una scarpa, né così forte da poter crescere là dove ben pochi altri sarebbero riusciti – con tutto l'aiuto possibile. E soprattutto non sapeva che ognuno possiede qualità di cui altri vogliono approfittare, nutrendosene, uccidendole o succhiandogliele lentamente, con piccole ferite o insanabili rotture. E che anche la pioggia può affogare, il sole seccare, il vento spezzare, gli amici invadere, e che a volte la morte può partire proprio da se stessi.
Ad ogni essere vivente è stato chiesto incautamente di vivere, e così di soffrire e di dover imparare a trarre il meglio di ogni giorno, e così di poter essere chi ascolta e nutre o chi spezza e uccide. E così, sin dall'alba della propria esistenza, è stato chiesto ad ognuno di scegliere, anche quando sembra che una scelta non ci sia.
Anche su wattpad.
Ad ogni essere vivente è stato chiesto incautamente di vivere, e così di soffrire e di dover imparare a trarre il meglio di ogni giorno, e così di poter essere chi ascolta e nutre o chi spezza e uccide. E così, sin dall'alba della propria esistenza, è stato chiesto ad ognuno di scegliere, anche quando sembra che una scelta non ci sia.
Anche su wattpad.
martedì 5 settembre 2017
Cenere
Da qualche parte in Inghilterra, durante un inverno di tanti anni fa, venne trovata una bambina di circa cinque anni, nascosta in un angolo di strada a tremare, raggomitolata. La donna che la trovò non era una persona cattiva, e il suo timore di incontrare sconosciuti pericolosi scemò di fronte ad una creatura infreddolita. Le chiese quale fosse il suo nome, e dove si trovasse la sua famiglia, ma lei non seppe rispondere, perché non lo ricordava. La donna, allora, la portò nella propria casa, un luogo buio ma caldo, solitario ma accogliente; la sfamò e la lavò, e cercò di saperne di più, ma la bambina non seppe dirle nulla. Decise allora di farla dormire lì, e quando suo marito tornò gli domandò di fare piano, per non svegliarla. Anche lui era una brava persona, ma sapeva che non potevano permettersi di mantenere quella bambina, sebbene leggesse questo desiderio negli occhi della donna, che amava i bambini e ne desiderava uno da tanto tempo. Disse alla moglie che sarebbe stata da loro per un po', ma che avrebbero avvertito di aver accolto una bambina scomparsa e che se nessuno l'avesse riconosciuta come sua l'avrebbero mandata in orfanotrofio. Con dolore, la donna accettò, e così trascorsero i giorni, e le settimane, e la notizia passò di villaggio in cittadina. Nessuno diede segno di avere mai dato alla luce quella bambina, e con un sacchetto di regali dovettero lasciarla davanti a quel decrepito edificio pieno di tristi cuccioli, promettendo che sarebbero tornati a trovarla, di tanto in tanto.
Qui sì che c'erano cattive persone. Ai bambini venivano richiesti continui lavoretti, in cambio di grida e botte, magri pasti e scomodi letti. Lei, comunque, non parlava mai. Piangeva, e sopportava ogni pugno, ogni cinghiata, ogni sera passata nel letto con gli occhi sgranati, insonne per la fame. Non ribatteva... se non con lo sguardo. Non aveva un nome, ma i suoi occhi la rendevano inconfondibile: era come se potessero dare fuoco a chiunque guardasse. Anche volendo, non riusciva a controllarli, scatenando la ferocia di tutti gli animi vendicativi, che la tacciavano di insolenza e gliela facevano pagare duramente.
Ma crebbe in fretta, e con lei le sue ferite, la sua rabbia... la sua voglia di distruggere tutto. Cominciò a dire ciò che i suoi occhi esprimevano: e si infiammava per ogni ingiustizia, difendendo chiunque contro chiunque prevaricasse, e veniva punita sempre più duramente. Una lotta solitaria, la sua, perché nessuno osava avvicinarla, per timore di ritorsioni o anche solo per la sua stramberia. Ogni gioco diventava sempre meno divertente, e sempre più crudele. Fu così che un giorno, quando vide le fiamme e ne intuì il potere distruttivo, le nacque un desiderio ardente di liberarle. E lo fece. La ritrovarono sotto la cenere, l'unica sopravvissuta all'incendio. Scappò dalle mani dei 'pompieri', se allora si potevano definire tali, e andò dai suoi genitori adottivi, dimenticando di non essere loro figlia, grazie a tutto ciò che le diedero.
Fu così che si chiamò Sear, come 'bruciare', il nome derivato dall'odio; e 'Greyson', il nome derivato dall'amore, perché il cognome dei suoi genitori, che erano tali non per genetica, né per legge, ma per amore.
[12/10/2014]
Qui sì che c'erano cattive persone. Ai bambini venivano richiesti continui lavoretti, in cambio di grida e botte, magri pasti e scomodi letti. Lei, comunque, non parlava mai. Piangeva, e sopportava ogni pugno, ogni cinghiata, ogni sera passata nel letto con gli occhi sgranati, insonne per la fame. Non ribatteva... se non con lo sguardo. Non aveva un nome, ma i suoi occhi la rendevano inconfondibile: era come se potessero dare fuoco a chiunque guardasse. Anche volendo, non riusciva a controllarli, scatenando la ferocia di tutti gli animi vendicativi, che la tacciavano di insolenza e gliela facevano pagare duramente.
Ma crebbe in fretta, e con lei le sue ferite, la sua rabbia... la sua voglia di distruggere tutto. Cominciò a dire ciò che i suoi occhi esprimevano: e si infiammava per ogni ingiustizia, difendendo chiunque contro chiunque prevaricasse, e veniva punita sempre più duramente. Una lotta solitaria, la sua, perché nessuno osava avvicinarla, per timore di ritorsioni o anche solo per la sua stramberia. Ogni gioco diventava sempre meno divertente, e sempre più crudele. Fu così che un giorno, quando vide le fiamme e ne intuì il potere distruttivo, le nacque un desiderio ardente di liberarle. E lo fece. La ritrovarono sotto la cenere, l'unica sopravvissuta all'incendio. Scappò dalle mani dei 'pompieri', se allora si potevano definire tali, e andò dai suoi genitori adottivi, dimenticando di non essere loro figlia, grazie a tutto ciò che le diedero.
Fu così che si chiamò Sear, come 'bruciare', il nome derivato dall'odio; e 'Greyson', il nome derivato dall'amore, perché il cognome dei suoi genitori, che erano tali non per genetica, né per legge, ma per amore.
[12/10/2014]
mercoledì 30 agosto 2017
Sara Svoglini
Sara Svoglini sfuggiva sovente sugli scogli salentini, segretamente.
Spesso severamente sgridata, si scontentava se studiava, se seguiva scalette, se sollecitata, se svegliata - sostanzialmente, sopportava scarsamente sia sottomissioni sia suggerimenti. Soltanto stare sulla sabbia sapeva soddisfarla: spaparanzata, scrutava serena sotto, sopra se stessa, scandagliando superfici, sospettandone sconfinati segreti. Supponeva, sviluppava, sicché sprigionava straordinarie stranezze - sue sole speranze. Si svagava soprattutto se scriveva storie: sognava splendide sirene, sciocchi sub, schietti spadaccini, spavaldi soldati, spregevoli spiriti, scintillanti scrigni. Suoi segreti sussurrati.
Sulla sera stava segnandosi strane strofe, sinché soffi salini salirono sulla superficie salmastra, spostando scortesemente sette suoi scritti, sbattendoli sulla spiaggia; sconcertata, si sollevò subito, seguendoli. Si sporse... senonché scorse sembianze sconosciute. Sgomenta, scappò sul sentiero sassoso; sfrecciava, sudata, senza sosta. Si spinse sulla sua soglia sbuffando.
Sapendosi sicura, Sara si stese sul sofà... sinché saltò su, scoprendosi senza scritti, schizzi, schemi. Si sentì svelata, sconvolta. Specialmente segreti si svelavano sui suoi scritti: schegge spirituali soltanto sue... Sebbene sembrassero solo stupide storie, sottintendevano sogni sopiti, sbagli smentiti, situazioni spiacevoli, sconsolate stille. Simboleggiavano Sara stessa; svenderli significava sottomettersi. Si sentiva sporcata, spezzata.
Sferrò svariati schiaffi sulla sensazione, scacciandola. Serviva supplire: struggersi sabota soltanto solidi stratagemmi. Supponendo stessero sul serio sulla spiaggia, salvi... sarebbe salita, sinanche salpata, sapendosi salvaguardata. « Sara! Scendi! » sentì strepitare. « Stupidi sorveglianti! » sussurrò stressata. Sfamarsi? Soltanto superflui sostentamenti.
Spilluzzicò silenziosamente, sentendo soltanto se stessa.
Successivamente si sdraiò sullo stomaco scompigliato, sgombro. Sragionava sconvolta, senza sosta, su soluzioni senza senso - strazi scimmiottanti speranze. Stordita, stramazzò sonnolenta.
Sognò scure silhouette sghignazzare sguaiate schiacciandola, sottraendole spazio, sputando sulla sua sorte. Si svegliò sobbalzando, sulla sottile stoffa sudata. Sulla sveglia scintillava: "6:16".
Silenziosamente, senza scarpe, sgusciò sulla strada. Sebbene sussultasse, si spinse sin sulla sabbia, scarsamente soleggiata - sarcastica sintonia. Solitamente sarebbe stata serena, seppur sgridata, seppur sola; stavolta si sentiva scombussolata, stravolta. Squadrò spiaggia, scogli, sentiero, sedie sparse, spasmodicamente. Senza successo.
Si sedette, snocciolando silenziosamente supponibili siti. Simulava sicurezza, sebbene sentisse salire soltanto sconforto. Seppur sforzandosi, soccombette: singhiozzò senza sosta, stringendosi, scalfendosi. Solo successivamente smise, sentendosi scottare sulle spalle: spontaneamente spalancò sguardi stupiti sullo sconfinato spettacolo suggeritole, soave, suggestivo. Sensazioni serene saturarono sufficienti spazi svuotati: sentì sollevarsi some sulle spalle, stille seccarsi. Scattò, spedita, sui sassi.
Si susseguirono secondi, stagioni, semestri. Sola, sbocciò: silenziosa, seria, scrupolosa, sfidandosi si superava sempre. Sinceramente stimata, sconvolse superficiali, scemi, sinanche sapienti. Si svagava senza svago, sgradevolmente, siccome sognare sortiva solamente sofferenza; sebbene si spingesse sporadicamente sulla sabbia, scompigliandola, sentiva superfluo sperare.
Studi svolti, stabilì subito scalette. Senonché, senza sollecitudini, splendidi sogni scordati si svilupparono. Sara, stimolata, sottrasse silenziosamente stampati: soccombette scrivendo sulle scabre superfici, smaniosamente. Scrisse, scrisse scintillante; suggerimenti si susseguivano senza sosta: stravaganze scoperchiate, stendeva seicento storie, sgorgavano settemila soggetti. Si sconvolse scoprendo sentimenti sconosciuti, strane sonorità, spettacolari sofismi. Sussultava, studiando se stessa senza saperlo.
Smettendo, spontaneamente strinse strettamente suoi scritti, sfogandosi: si sentiva straordinariamente spensierata.
Scordando sfiducie sradicate, svelò serenamente sedici storie sopite. Seguì scrutare, soffermarsi, serafica. Sorpresa, stordimento, stupore si sparsero. « Sei strepitosa! » strillò Sharon, sua sorella; « Sono super-simpatiche... spiritose » sorrise Stefano. Subito si stabilirono suoi sostenitori, spingendola saggiamente sulla sua segreta strada.
Sara si spaventò: sarebbe sopravvissuta? Si sentiva straniera, sprovveduta: scriveva soltanto stupide storielle, seppur scorrevoli.
« Suvvia, Sara... sai, sei strana. Superi sforzi senza sosta, sfacciatamente... sennonché sei scrivofobica? » sogghignò Stefano, sfidandola scherzosamente, sicuro. Si sentì stuzzicata.
Scelse spavaldamente: si sarebbe sperimentata scrivana, senza soppesare smodatamente.
Seguitò scrivendo settimane. Si spingeva, si sorvegliava, superando stanchezze, sostentandosi sommariamente; sopraffatta, sapeva solo scrivere, sempre. Sinché scrisse “stop”, soddisfatta.
Sospesa, senza smania stampò.
Subito si sentì se stessa: Sara Svoglini, scopertasi smarrita scrittrice.
Spesso severamente sgridata, si scontentava se studiava, se seguiva scalette, se sollecitata, se svegliata - sostanzialmente, sopportava scarsamente sia sottomissioni sia suggerimenti. Soltanto stare sulla sabbia sapeva soddisfarla: spaparanzata, scrutava serena sotto, sopra se stessa, scandagliando superfici, sospettandone sconfinati segreti. Supponeva, sviluppava, sicché sprigionava straordinarie stranezze - sue sole speranze. Si svagava soprattutto se scriveva storie: sognava splendide sirene, sciocchi sub, schietti spadaccini, spavaldi soldati, spregevoli spiriti, scintillanti scrigni. Suoi segreti sussurrati.
Sulla sera stava segnandosi strane strofe, sinché soffi salini salirono sulla superficie salmastra, spostando scortesemente sette suoi scritti, sbattendoli sulla spiaggia; sconcertata, si sollevò subito, seguendoli. Si sporse... senonché scorse sembianze sconosciute. Sgomenta, scappò sul sentiero sassoso; sfrecciava, sudata, senza sosta. Si spinse sulla sua soglia sbuffando.
Sapendosi sicura, Sara si stese sul sofà... sinché saltò su, scoprendosi senza scritti, schizzi, schemi. Si sentì svelata, sconvolta. Specialmente segreti si svelavano sui suoi scritti: schegge spirituali soltanto sue... Sebbene sembrassero solo stupide storie, sottintendevano sogni sopiti, sbagli smentiti, situazioni spiacevoli, sconsolate stille. Simboleggiavano Sara stessa; svenderli significava sottomettersi. Si sentiva sporcata, spezzata.
Sferrò svariati schiaffi sulla sensazione, scacciandola. Serviva supplire: struggersi sabota soltanto solidi stratagemmi. Supponendo stessero sul serio sulla spiaggia, salvi... sarebbe salita, sinanche salpata, sapendosi salvaguardata. « Sara! Scendi! » sentì strepitare. « Stupidi sorveglianti! » sussurrò stressata. Sfamarsi? Soltanto superflui sostentamenti.
Spilluzzicò silenziosamente, sentendo soltanto se stessa.
Successivamente si sdraiò sullo stomaco scompigliato, sgombro. Sragionava sconvolta, senza sosta, su soluzioni senza senso - strazi scimmiottanti speranze. Stordita, stramazzò sonnolenta.
Sognò scure silhouette sghignazzare sguaiate schiacciandola, sottraendole spazio, sputando sulla sua sorte. Si svegliò sobbalzando, sulla sottile stoffa sudata. Sulla sveglia scintillava: "6:16".
Silenziosamente, senza scarpe, sgusciò sulla strada. Sebbene sussultasse, si spinse sin sulla sabbia, scarsamente soleggiata - sarcastica sintonia. Solitamente sarebbe stata serena, seppur sgridata, seppur sola; stavolta si sentiva scombussolata, stravolta. Squadrò spiaggia, scogli, sentiero, sedie sparse, spasmodicamente. Senza successo.
Si sedette, snocciolando silenziosamente supponibili siti. Simulava sicurezza, sebbene sentisse salire soltanto sconforto. Seppur sforzandosi, soccombette: singhiozzò senza sosta, stringendosi, scalfendosi. Solo successivamente smise, sentendosi scottare sulle spalle: spontaneamente spalancò sguardi stupiti sullo sconfinato spettacolo suggeritole, soave, suggestivo. Sensazioni serene saturarono sufficienti spazi svuotati: sentì sollevarsi some sulle spalle, stille seccarsi. Scattò, spedita, sui sassi.
Si susseguirono secondi, stagioni, semestri. Sola, sbocciò: silenziosa, seria, scrupolosa, sfidandosi si superava sempre. Sinceramente stimata, sconvolse superficiali, scemi, sinanche sapienti. Si svagava senza svago, sgradevolmente, siccome sognare sortiva solamente sofferenza; sebbene si spingesse sporadicamente sulla sabbia, scompigliandola, sentiva superfluo sperare.
Studi svolti, stabilì subito scalette. Senonché, senza sollecitudini, splendidi sogni scordati si svilupparono. Sara, stimolata, sottrasse silenziosamente stampati: soccombette scrivendo sulle scabre superfici, smaniosamente. Scrisse, scrisse scintillante; suggerimenti si susseguivano senza sosta: stravaganze scoperchiate, stendeva seicento storie, sgorgavano settemila soggetti. Si sconvolse scoprendo sentimenti sconosciuti, strane sonorità, spettacolari sofismi. Sussultava, studiando se stessa senza saperlo.
Smettendo, spontaneamente strinse strettamente suoi scritti, sfogandosi: si sentiva straordinariamente spensierata.
Scordando sfiducie sradicate, svelò serenamente sedici storie sopite. Seguì scrutare, soffermarsi, serafica. Sorpresa, stordimento, stupore si sparsero. « Sei strepitosa! » strillò Sharon, sua sorella; « Sono super-simpatiche... spiritose » sorrise Stefano. Subito si stabilirono suoi sostenitori, spingendola saggiamente sulla sua segreta strada.
Sara si spaventò: sarebbe sopravvissuta? Si sentiva straniera, sprovveduta: scriveva soltanto stupide storielle, seppur scorrevoli.
« Suvvia, Sara... sai, sei strana. Superi sforzi senza sosta, sfacciatamente... sennonché sei scrivofobica? » sogghignò Stefano, sfidandola scherzosamente, sicuro. Si sentì stuzzicata.
Scelse spavaldamente: si sarebbe sperimentata scrivana, senza soppesare smodatamente.
Seguitò scrivendo settimane. Si spingeva, si sorvegliava, superando stanchezze, sostentandosi sommariamente; sopraffatta, sapeva solo scrivere, sempre. Sinché scrisse “stop”, soddisfatta.
Sospesa, senza smania stampò.
Subito si sentì se stessa: Sara Svoglini, scopertasi smarrita scrittrice.
Tautologia di 600 parole in "s", di Sear Greyson ©
venerdì 25 agosto 2017
Inventiamo favole e fiabe per i modi di dire 1
C'era una volta un re, uomo molto ricco, che aveva 1000 castelli,
10000 ville, 5000 piscine, 80 cani, 60 gatti, 40 tartarughe, 20
criceti, 20 maialini d’India, 20 pesci rossi, 15 pappagalli, e
ancora uccellini tropicali, volpi, oche, maiali, mucche, asini,
iguane, e persino ermellini, ornitorinchi, e cerbiatti, rinoceronti,
giraffe, zebre (per non parlare dei serpenti velenosi, iene,
sciacalli, tigri, leoni che si teneva, a seconda dell’umore, in
casa a fargli compagnia; così loro, docili docili, morsicavano ogni
tanto qualche suddito poco gradito). Possedeva anche quadri
famosissimi, vasi pregiati, libri e manoscritti antichi, e molte
altre cose, ma in particolare una candela molto bella a cui tutti
ambivano perché era d’oro massiccio.
Un giorno in cui il re era
particolarmente buono, però, decise che l’avrebbe messa in palio
per chiunque l’avesse battuto a scacchi - però dovevano portare
qualcosa in cambio, per, cioè, se avessero perso. I suoi sudditi,
allora, o almeno quelli che sapevano giocare a scacchi (cioè quelli
ricchi) dapprima reclamarono, perché sapevano che il re era
imbattibile a scacchi siccome vi si esercitava ogni giorno e già
aveva una dote particolare per quel gioco, ma poi accettarono di
sfidarlo e, il giorno stabilito, andarono nel castello del re
appositamente adibito ripassando le regole del gioco e pregando o
litigando con gli altri per il nervosismo. Tutti però si guardavano
intorno invidiando la ricchezza del re, e mangiando con lo sguardo la
candela che stava su un cuscino in una teca ben in vista. Il re,
intanto, si godeva lo spettacolo ed accarezzava il suo cobra lungo 8
metri. Quando si annoiò, diede inizio al “combattimento”,
posando il suo cobra in un largo cesto decorato e scrocchiandosi le
dita, pronto a sfidare con le sue pedine d’avorio il primo pazzo.
Lo affrontarono in molti, dopo che questo si fu fatto avanti, e tutti
persero; il re ci guadagnò centinaia di animali sfruttabili
in pelli e latte e altro, alcuni soprammobili di grande valore e
libri, poesie originali di autori importanti, attrezzature per
scrivere, un’armatura e molto altro ancora. Si stava facendo buio e
gli sfidanti ormai scarseggiavano, sia perché alcuni si erano dati
alla fuga sia perché il re ne aveva sfidati proprio tanti. «Si
faccia avanti l’ultimo» decise il re, e tra i quattro rimanenti,
tre erano ben poco convinti ma uno si fece avanti: «Io sono il
Conte delle Terre Mai Esistite, Barone dei Campi Che Non Hanno Nome,
Marchese dei Luoghi Lontani, Principe del Regno Molto Strano Che Più
Strano Non Si Può, il Re del Reame Poco Serio e la sfido mettendo in
palio le mie terre!». Il re, un po’ perplesso (e sbalordito da
come avesse potuto ricordare tutti quei titoli), non avendolo mai
sentito nominare, non esitò e, senza parlare, lo invitò a sedersi e
a prendere i pezzi bianchi. Molto buono.
Be’, quel
Conte-Barone-Marchese-Principe-Re era anche un grande lottatore,
scrittore, poeta; era spiritoso, romantico, gentile, alto, snello e
soprattutto sportivo; eccelleva nel cavalcare, nel giocare a
badminton e… negli scacchi. Infatti vinse e si guadagnò la
candela, lasciando il re con una espressione vinta e con alquanta
depressione nel cuore, ma facendogli capire che era stato sin troppo
presuntuoso. Essendo sportivo il Conte-Barone ecc. ecc. strinse
subito la mano all’avversario vinto, dicendogli, guardando la metà
sala colma dei premi vinti: «Ammettiamolo, il
gioco valeva la candela».
Scritta il 1° aprile 2008 (avevo 13 anni). E' che proprio non mi sapevo spiegare il senso di questo detto.
Anche su wattpad: https://www.wattpad.com/460817708-soffi-di-favole-inventiamo-favole-e-fiabe-per-i.

sabato 1 luglio 2017
Lungo un sentiero tortuoso
Narra la leggenda che, lungo un sentiero molto tortuoso, s'incontrarono un uomo e una ragazza. L'uomo era molto vecchio, ma curato ed elegante, nel suo smoking blu notte; la ragazza, invece, era vestita di stracci, e la sua chioma scompigliata strideva al confronto con la bellissima tuba del vecchio. Al di sotto di essa, gli occhi dell'uomo scintillarono di rabbia mentre le sue labbra pronunciavano queste parole: "Allontanati da me, lurida ladra!".
La ragazza alzò il suo sguardo, fiero e bellissimo, e con calma disse: "Lei non conosce me né la mia storia; eppure ha dedotto che io debba essere una ladra, per come mi mostro al mondo." Con dolce curiosità concluse: "Lei è il figlio di Offuscamento e Menzogna, il signor Pregiudizio?"
L'uomo non si calmò, mentre chiedeva: "Come hai indovinato?", ma la sua domanda risuonò falsa; soprattutto in confronto alla semplicità della ragazza: "L'ho dedotto dalle Sue parole. Ma com'è che mi domanda da cosa io l'abbia capito, quando a Lei non importa nulla di dare veri motivi alle sue deduzioni? Per quanti indizi avessi, io le ho domandato conferma, prima di giudicare."
L'uomo si fece più piccolo, senza dire nulla. La ragazza allora parlò: "Anche se non sembra interessarle, o forse proprio per questo, le racconterò la mia storia. Mia madre, Verità, e mio padre, Amore, diedero alla luce me e mia sorella Vita riponendo in noi la più completa fiducia. Ci lasciarono andare per il mondo, a patto che che all'incontro con gli uomini li baciassimo con la nostra saggezza; ma mia madre divenne ben presto inferma, e non poté più illuminare gli occhi degli uomini. E' a causa loro che sono ridotta così, con i vestiti stracciati e i capelli strappati... Ma, almeno finché ci sarà Lei a fuorviarli..."
"Zitta, stupida ragazzina!" gridò l'uomo, mollando uno schiaffo alla ragazza, che cadde. Ma, i capelli davanti al viso, terminò lo stesso la frase: "... non mi fermerò."
L'uomo se ne andò indignato, senza capire nulla perché è in questo che la sua natura consiste: vedere esattamente ciò che vuole vedere, anche se questo significa negare l'evidenza. La ragazza si rialzò spolverandosi i vestiti, e riprese più testarda che mai verso la sua strada.
E' così che Pregiudizio e Giustizia s'incontrarono sul tormentato sentiero del Destino, dove molti uomini incrociano entrambi, ma a volte non sono capaci di distinguere il bene dal male nelle loro parole.

Scritta il 19/01/2012 (avevo 16 anni).
Anche su Wattpad.
La ragazza alzò il suo sguardo, fiero e bellissimo, e con calma disse: "Lei non conosce me né la mia storia; eppure ha dedotto che io debba essere una ladra, per come mi mostro al mondo." Con dolce curiosità concluse: "Lei è il figlio di Offuscamento e Menzogna, il signor Pregiudizio?"
L'uomo non si calmò, mentre chiedeva: "Come hai indovinato?", ma la sua domanda risuonò falsa; soprattutto in confronto alla semplicità della ragazza: "L'ho dedotto dalle Sue parole. Ma com'è che mi domanda da cosa io l'abbia capito, quando a Lei non importa nulla di dare veri motivi alle sue deduzioni? Per quanti indizi avessi, io le ho domandato conferma, prima di giudicare."
L'uomo si fece più piccolo, senza dire nulla. La ragazza allora parlò: "Anche se non sembra interessarle, o forse proprio per questo, le racconterò la mia storia. Mia madre, Verità, e mio padre, Amore, diedero alla luce me e mia sorella Vita riponendo in noi la più completa fiducia. Ci lasciarono andare per il mondo, a patto che che all'incontro con gli uomini li baciassimo con la nostra saggezza; ma mia madre divenne ben presto inferma, e non poté più illuminare gli occhi degli uomini. E' a causa loro che sono ridotta così, con i vestiti stracciati e i capelli strappati... Ma, almeno finché ci sarà Lei a fuorviarli..."
"Zitta, stupida ragazzina!" gridò l'uomo, mollando uno schiaffo alla ragazza, che cadde. Ma, i capelli davanti al viso, terminò lo stesso la frase: "... non mi fermerò."
L'uomo se ne andò indignato, senza capire nulla perché è in questo che la sua natura consiste: vedere esattamente ciò che vuole vedere, anche se questo significa negare l'evidenza. La ragazza si rialzò spolverandosi i vestiti, e riprese più testarda che mai verso la sua strada.
E' così che Pregiudizio e Giustizia s'incontrarono sul tormentato sentiero del Destino, dove molti uomini incrociano entrambi, ma a volte non sono capaci di distinguere il bene dal male nelle loro parole.

Scritta il 19/01/2012 (avevo 16 anni).
Anche su Wattpad.
giovedì 1 giugno 2017
In un'epoca di realisti
In un'epoca di realisti, un sognatore:
tutti lo credevano pazzo,
e lui era felice
perché il suo sogno era di essere diverso.
tutti lo credevano pazzo,
e lui era felice
perché il suo sogno era di essere diverso.

mercoledì 17 maggio 2017
Ryda
I passanti guardavano la bambina, che, incurante, si lasciava dietro pezzi di sciarpa, frutta schiacciata e urla adirate...
Eppure non dava fastidio a tutti quella strana ragazzina che ogni giorno passava di là correndo: non era brutta; e soprattutto era pulita, a parte i piedi, nudi, intinti sempre di rosso o arancione. Ma in fondo finché quei "pigmenti" non scadevano, avevano di certo un odore migliore di quelli dei piedi altrui.
Non era un periodo in cui la gente si curava molto della propria igiene personale. Per questo morivano giovani, e tentavano di godersi la vita finché potevano: e, non avendo blog con cui passare il tempo, dedicavano un quarto della loro giornata ad arricchire le voci che giravano sulla bambina, che non passava mai alla stessa ora o per lo stesso posto due volte, alimentando le strane idee che circolavano.
La maggior parte della gente del villaggio le aveva parlato, a sentir loro. Tutti sapevano il suo nome, ma era un nome diverso dalla bocca si ognuno; tutti conoscevano la sua storia, e il suo segreto, ma la bambina era una brava ragazzina che andava a scuola ogni mattina e una pazza psicopatica, un orfana per il caso o per l'omicidio, un angelo e la figlia del diavolo, una strega e una fata dei boschi.
Almeno tutti erano d'accordo su una cosa: il chiamarla "Piedini"... perché tutti i loro sicurissimi informatori, curiosamente, la chiamavano al medesimo modo, e così tutti nel villaggio si potevano capire dandole quel soprannome.
Una cosa che nessuno sapeva, perché tutti tenevano segrete le sembianze dei propri informatori, era che tutti quanti portavano un nero mantello lungo fino ai piedi, logoro, nero e bucato laddove la caviglia destra strusciava contro il vestito. Nessuno aveva mai notato che gli occhi, pur coperti, emanavano gli stessi riflessi verdi, quasi eccessivi; e nessuno sembrava aver fatto caso alla forzatura che c'era in quella voce da uomo...
La gente guardava soltanto l'altezza, che era nella media. La gente vedeva soltanto l'ombra, in quel viso, e non la luce così bella che emanavano quegli occhi vivi; la gente ascoltava quello che la voce diceva, e non l'inflessione o il timbro; la gente badava alle notizie, e non a chi le dava, e Ryda era stuzzicato più da questo che da tutto il resto.
O forse no... forse a lui bastava inventare storie, e basta. Forse il suo sorriso, quando la lavandaia diceva al fabbro che la bambina era una figlia della Luna, sorella delle Stelle, era dovuto soltanto al fatto che lo dicesse, e non al fervore con cui i suoi gesti ammettevano che vi aveva creduto... In fondo quello che piaceva di più a Ryda era inventare storie: esse erano il suo pane quotidiano, e senza il pan di grano non gli sarebbe cambiato niente pur di poter continuare a fantasticare. Due parole soltanto erano per lui fonte d'ispirazione di mille storie... e la verità? Quanto contava per lui?
Neanche Ryda lo sapeva, perché non fu lui a seguire Piedini quel giorno, ma i suoi piedi: e la seguivano senza dare retta agli occhi, o ascolto alle orecchie: badando soltanto a... a... qualcos'altro. Cosa, vi dirò, non so dirvi: volete seguire Piedini anche voi, al seguito di Ryda? Io sono pronta.

Eppure non dava fastidio a tutti quella strana ragazzina che ogni giorno passava di là correndo: non era brutta; e soprattutto era pulita, a parte i piedi, nudi, intinti sempre di rosso o arancione. Ma in fondo finché quei "pigmenti" non scadevano, avevano di certo un odore migliore di quelli dei piedi altrui.
Non era un periodo in cui la gente si curava molto della propria igiene personale. Per questo morivano giovani, e tentavano di godersi la vita finché potevano: e, non avendo blog con cui passare il tempo, dedicavano un quarto della loro giornata ad arricchire le voci che giravano sulla bambina, che non passava mai alla stessa ora o per lo stesso posto due volte, alimentando le strane idee che circolavano.
La maggior parte della gente del villaggio le aveva parlato, a sentir loro. Tutti sapevano il suo nome, ma era un nome diverso dalla bocca si ognuno; tutti conoscevano la sua storia, e il suo segreto, ma la bambina era una brava ragazzina che andava a scuola ogni mattina e una pazza psicopatica, un orfana per il caso o per l'omicidio, un angelo e la figlia del diavolo, una strega e una fata dei boschi.
Almeno tutti erano d'accordo su una cosa: il chiamarla "Piedini"... perché tutti i loro sicurissimi informatori, curiosamente, la chiamavano al medesimo modo, e così tutti nel villaggio si potevano capire dandole quel soprannome.
Una cosa che nessuno sapeva, perché tutti tenevano segrete le sembianze dei propri informatori, era che tutti quanti portavano un nero mantello lungo fino ai piedi, logoro, nero e bucato laddove la caviglia destra strusciava contro il vestito. Nessuno aveva mai notato che gli occhi, pur coperti, emanavano gli stessi riflessi verdi, quasi eccessivi; e nessuno sembrava aver fatto caso alla forzatura che c'era in quella voce da uomo...
La gente guardava soltanto l'altezza, che era nella media. La gente vedeva soltanto l'ombra, in quel viso, e non la luce così bella che emanavano quegli occhi vivi; la gente ascoltava quello che la voce diceva, e non l'inflessione o il timbro; la gente badava alle notizie, e non a chi le dava, e Ryda era stuzzicato più da questo che da tutto il resto.
O forse no... forse a lui bastava inventare storie, e basta. Forse il suo sorriso, quando la lavandaia diceva al fabbro che la bambina era una figlia della Luna, sorella delle Stelle, era dovuto soltanto al fatto che lo dicesse, e non al fervore con cui i suoi gesti ammettevano che vi aveva creduto... In fondo quello che piaceva di più a Ryda era inventare storie: esse erano il suo pane quotidiano, e senza il pan di grano non gli sarebbe cambiato niente pur di poter continuare a fantasticare. Due parole soltanto erano per lui fonte d'ispirazione di mille storie... e la verità? Quanto contava per lui?
Neanche Ryda lo sapeva, perché non fu lui a seguire Piedini quel giorno, ma i suoi piedi: e la seguivano senza dare retta agli occhi, o ascolto alle orecchie: badando soltanto a... a... qualcos'altro. Cosa, vi dirò, non so dirvi: volete seguire Piedini anche voi, al seguito di Ryda? Io sono pronta.

martedì 17 febbraio 2015
La mia meta
Mi siedo accanto al finestrino, ma non guardo fuori: guardo dentro.
Guardo le bimbe dai visi dolci e curiosi, che ammirano il mondo per come è, ovvero per come lo vedono. Guardo le donne che le tengono per mano, annoiate dalla vita.
Guardo le coppie di mezz'età che litigano a proposito di qualcosa di cui si sono già dimenticati. Guardo i ragazzi che tengono strette le loro ragazze alla vita, come per paura che volino via, e fra due mesi ne terranno stretta un'altra allo stesso modo.
Guardo le ragazze che cercano di imprimersi nella mente termini stranieri folli e sconosciuti, che nella vita vera non userebbero mai. Guardo donne che parlano fra loro in francese, ridendo di coloro che non le capiscono.
Guardo donne musulmane, che pensano alle loro figlie, vittime dei pregiudizi e della loro stessa identità. Guardo ragazzi che sognano, e al contempo temono di essere ciò che sono.
Guardo uomini neri che sorridono alle loro mani rovinate, perché ogni nuova ferita significa un pasto in più per la loro famiglia, lontana. Guardo ragazzi bianchi che sghignazzano e si spintonano, pensando al prossimo incendio che causeranno.
Guardo giovani che cercano lavoro, guardo meno giovani che maledicono il proprio.
Guardo frange che coprono occhi, guardo visi aperti e sinceri; guardo ladri e derubati, guardo tutti i colori dell'arcobaleno. Sento risate, grida, musica, e odori.
E' un mondo variopinto, in tutti i sensi, e per questo mi piace un sacco e per questo ogni volta che vengo qui è per poi tornare al punto di partenza, ma in verità non ci ritorno mai davvero... la mia meta è il viaggio stesso, viaggio di scoperta e di fiducia.
Guardo le bimbe dai visi dolci e curiosi, che ammirano il mondo per come è, ovvero per come lo vedono. Guardo le donne che le tengono per mano, annoiate dalla vita.
Guardo le coppie di mezz'età che litigano a proposito di qualcosa di cui si sono già dimenticati. Guardo i ragazzi che tengono strette le loro ragazze alla vita, come per paura che volino via, e fra due mesi ne terranno stretta un'altra allo stesso modo.
Guardo le ragazze che cercano di imprimersi nella mente termini stranieri folli e sconosciuti, che nella vita vera non userebbero mai. Guardo donne che parlano fra loro in francese, ridendo di coloro che non le capiscono.
Guardo donne musulmane, che pensano alle loro figlie, vittime dei pregiudizi e della loro stessa identità. Guardo ragazzi che sognano, e al contempo temono di essere ciò che sono.
Guardo uomini neri che sorridono alle loro mani rovinate, perché ogni nuova ferita significa un pasto in più per la loro famiglia, lontana. Guardo ragazzi bianchi che sghignazzano e si spintonano, pensando al prossimo incendio che causeranno.
Guardo giovani che cercano lavoro, guardo meno giovani che maledicono il proprio.
Guardo frange che coprono occhi, guardo visi aperti e sinceri; guardo ladri e derubati, guardo tutti i colori dell'arcobaleno. Sento risate, grida, musica, e odori.
E' un mondo variopinto, in tutti i sensi, e per questo mi piace un sacco e per questo ogni volta che vengo qui è per poi tornare al punto di partenza, ma in verità non ci ritorno mai davvero... la mia meta è il viaggio stesso, viaggio di scoperta e di fiducia.

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