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domenica 19 novembre 2017

Albus

Albus era nato alle falde del vulcano. Dal primo giorno aveva respirato, poi, aiutato da degli amici, aveva iniziato a procurarsi il cibo, e a crescere. Lui non lo sapeva, ma lentamente, oltre che da quegli amici che così strettamente a lui si erano legati, veniva cresciuto dalla cura della pioggia, dal calore del sole, dalle carezze del vento. Senza rendersene conto li ascoltava, e li seguiva; d'altronde non poteva prendere nessun'altra strada, perché lì stavano le sue radici, lì la sua terra, lì la sua vita. Non sapeva, poi, da dove provenisse, o dove fosse diretto. Non sapeva di essere così fragile da poter essere spazzato via da una scarpa, né così forte da poter crescere là dove ben pochi altri sarebbero riusciti – con tutto l'aiuto possibile. E soprattutto non sapeva che ognuno possiede qualità di cui altri vogliono approfittare, nutrendosene, uccidendole o succhiandogliele lentamente, con piccole ferite o insanabili rotture. E che anche la pioggia può affogare, il sole seccare, il vento spezzare, gli amici invadere, e che a volte la morte può partire proprio da se stessi.
Ad ogni essere vivente è stato chiesto incautamente di vivere, e così di soffrire e di dover imparare a trarre il meglio di ogni giorno, e così di poter essere chi ascolta e nutre o chi spezza e uccide. E così, sin dall'alba della propria esistenza, è stato chiesto ad ognuno di scegliere, anche quando sembra che una scelta non ci sia.


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